La presunzione era di sicuro il suo più grande difetto: amava se stesso, questo era l'unica certezza. In fondo non c'era da stupirsi se da piccolo la sola attività a cui si dedicava era la caccia. La caccia violenta, con sangue, viscere e morte. Tanta morte disseminata come peste. Eppure ad ogni sgozzamento, fiumi di lacrime sgorgavano piene di dolore sino alla manica destra del suo maglione preferito adibito a fazzoletto, sempre. Dolore e violenza, auto accettazione e masturbazione. La pena gli provoca tutt'ora piacere, così iniziò la scoperta della sua malattia. Una malattia senza cura, un'infezione che si espande nera ed infetta attorno al cuore, attorno al cervello avvelenando le sinapsi celebrali. Un'oscurità che inglobava tutto e spariva così come arrivava quando fagocitava la realtà: ora egli si ritrova di fronte a tre cadaveri, un martello in mano, sangue in bocca. Schizzi di liquido seminale dentro i pantaloni, lacrime pesanti come la penna del martello sul viso e un'espressione sconvolta nelle iridi. Un sorriso apatico. L'ultimo ricordo, se di ricordo si trattò, fu buio totale. Una macchia nera che come bruciatura su una pellicola cinematografica eliminava la trama della realtà, delle azioni. Tre singulti per tre corpi. Una risata condita da denti marci, una risata che assoceresti ad un clown ma non sai il perché. Gente che malata di coulrofobia impazzirebbe al suono. Flashback violenti e rapidi come un'eiaculazione di distruzione, di morte. Colpi secchi assestati su prede fuggenti, su animali da catturare, da torturare. Eliminare la carne, le ossa. Due uomini e una bambina, innocenti. Correvano svelti giù dalle scale con la paura nelle vene, ansimando e voltandosi di continuo. Ma la morte non ha fretta e lui aspettava, aspettava. Erano in trappola, semplicemente. Una casa di 300 mq con giardino, un immenso giardino curato settimanalmente che si era trasformata in una gabbia: una strategia impeccabile da freddo pianificatore. Ma non fu lui l'artefice: qualcosa aveva di certo manovrato le azioni poiché non ricordava nulla di pianificazioni o tattiche. Buio totale, come una notte senza luna.
Si riprese con l'accortezza di aver una martello in mano e un compito da svolgere, assegnatoli da qualcuno a cui non si poteva disubbidire. Uccidere. Amare intanto le proprie prede per l'occasione che gli stavano offrendo, amare il presente: attimi che fuggono. Il Mondo rideva con lui mentre si nascondeva nel capannone degli attrezzi, sotto una bicicletta rosa con il cestello profumato; una bellissima bici da bambina in un capannone nella parte est di una casa sperduta tra i boschi della Germania sud-est. Troppo silenzio anche solo per urlare. Una musichetta jazz risuonava nel cervello del freddo e paziente carnefice, una bella canzone anni '50. Sassofoni, clarinetti e bassi elettrici sbattevano tra le pareti craniche dell'uomo in attesa, rilassandolo talmente tanto che probabilmente avrebbe fatto delle fusa se fosse riuscito a contrarre il diaframma. 150 Hz. Come da programma nella scaletta degli orrori, la porta s'aprì di tutta fretta. E il vento entrò stridendo, rovinando la sinfonia. Un brontolio sordo penetrò la gola dell'uomo accovacciato ora dietro la porta, attento. Respiri brevi, con il contagocce. Il piacere era troppo forte, incontenibile, come se il culmine dell'orgasmo si fermasse per poi riprendere e godere di nuovo, senza fine. La macchia nera della malattia si espandeva. Un piacere lento e profondo nel vedere una mano pelosa abbigliata ad uno splendido orologio d'oro e un'accetta proprio dietro alle spalle sue. Un attimo, quanto basta per non rovinare i piani e quanto serve per sradicare un palmo dal polso. Un piccolo antipasto per non rovinare l'attesa del piatto principale; anche se a digiuno da ormai troppo, bisognava esser posati e contenuti. Urla, ancora urla. Risate, più risate. Le prede fuggirono ancora, in un luogo che lui aveva già previsto, sapeva ormai tutto. La trama non è importante, conta l'interpretazione- diceva sempre la sua insegnante di teatro, prima che la polizia la ritrovasse squartata nella vasca da bagno con una scritta ai piedi dello specchio: "Recitare in vita è vivere, morire è recitare davvero.". Le prede però erano scappate, rimanevano la mano e l'orologio; restava un piacere turgido da placare e non c'era fretta.                               
                                           Poi   arrivò , scese rapida come un diluvio, la fine.
Suicidio - Eduard Manet

Sentenziosa, sazia.                                                                                                       Fragile e prestabilita.


Con il sipario pronto per calare sull'opera, il protagonista osservava inebetito la scena. La sua scena, il suo spettacolo. Quello per cui era nato, ciò per cui tutti dovevano inchinarsi e sottomettersi. Un'altra volta il solo protagonista della tragedia, lui che amava così tanto se stesso. Così tanto da aver già messo in conto l'arrivo delle forze dell'ordine chiamate dalla bambina, come da copione. Così tanto da prendere una sega metallica e recidersi la gola. Per morire. Per recitare davvero un'ultima volta.