sabato 14 gennaio 2012
Che colore hanno gli alieni? (Extraterrestre portami via)
Shifting, Very Slowly Computer-controlled LED Installation |
Abitava in una di quelle case una appiccicata all’altra, con giusto un piccolo spazio per far sì che un filo d’aria entri nell’appartamento. Un muro in mattoni era tutto il panorama che con un gruzzolo di 200 al mese poteva permettersi: il muro di mattoni dei vicini con i loro strilli e con il loro televisore acceso ad un volume improponibile fino alle quattro del mattino. Diciamo che per chi è abituato a peggio, questo era un piccolo Eden coltivabile, con tanto di cantina e di wc in ceramica, molto pulibile di cui Marek apprezzava l’utilità. Uscì poi da casa sbattendo la porta due volte, poiché alla prima non si chiudeva mai. Sulle scale incontrò la signora Whaleford, imbambolata come al solito tra il terzo ed il secondo piano con quella stupida espressione da pesce palla che rendeva più evidenti le rughe d’espressione d’un tempo. Un tempo in cui c’era qualcosa per cui ridere. Un saluto veloce e via al lavoro, dove una pesante giornata di scartoffie si presentava all’orizzonte. Questo era il progetto, l’illusione. L’impegno. Marek non aveva mai sceso le scale quella mattina, e la sveglia non era suonata poiché nessuno l’aveva reimpostata. In realtà tutto si era cristallizzato esattamente due settimane fa, con quella chiamata e quella concitazione. Con quelle urla. Qualcosa era davvero accaduto, l’attenzione era all’apice. Sembrava che una sorta di coprifuoco invisibile e silenzioso fosse sceso su tutta la grande città, poiché niente e nessuno osò uscir fuori di casa dopo quell’enorme boato che riempì ogni singola abitazione e tutta l’area limitrofa. E al Distretto finalmente si decise per inviare un controllo e monitorare la situazione, in fondo era tutto così strano; Furono scelti in tutto tre uomini e spediti senza troppa voglia a Strempshire Street 87, l’unica strada da cui poi si poteva giungere ai campi sterrati da dove si era capito provenire la chiamata. La volante era guidata con calma da Smith, vice capo burbero e alquanto scontroso, con un fastidioso tic alla bocca. Ogni tanto emetteva un acuto stridio simile ad un fischio causato dalla lingua che sfregava contro le gengive risucchiando la saliva. Squììt. Era soprannominato il “Topo”. Alla sua destra sedeva Finn, agente Finn Reynord. Sicuramente l’unico della ciurma a cercar di far conversazione e rompere quel silenzio che in realtà disturbava lui soltanto. Né Smith né Marek ne erano turbati, perché sì, l’ultimo uomo che stava rannicchiato nei sedili posteriori fissando le ipnotiche luci della sirena era Marek. Il suo grado non era importante, I suoi pensieri erano turbati da questo caos silenzioso. I filosofi spesero chissà quali energie per trovare una definizione universale di “alienazione” quando basta uno sguardo a Marek per capire quanto serve: un particolare che soverchia l’universale, una fenomenologia della vita. Una catabasi nella paranoia più profonda estraniata dal comune vivere. Vedi anche: Marek. Quel dannato rosso che insegue il blu, poi il rosso, poi il blu e gli occhi si chiudono in una fessura oscura. Una sgommata e pietruzze che sferragliano tra le ruote della volante lanciata ad una velocità inverosimilmente bassa lo risvegliarono dal viaggio. Erano arrivati, così disse il Topo. Poi non successe più nulla, o almeno niente che accadde per davvero. Chissà per quale ragione tutto ruotava attorno alla mente di Marek come piccoli pesci rossi in una boccia troppo grande. Come in un sogno. Un incubo. Fu una serie di eventi non precisabili, tanti fotogrammi di un film senza trama: qualcosa colpì in pieno petto Finn quando questo tentò di avvicinarsi a bocca aperta all’enorme poliedrico scatolone fosforescente in mezzo al deserto. In mezzo al nulla.
L’impressione che Marek ne ebbe fu quella di un lampione sperduto in mezzo ad una strada di montagna, dove l’utilità è scarsa. Dove la solitudine è alta. E Finn giaceva a terra, implorante qualcosa che di importanza non ne aveva: cosa fosse l’importanza, così decantata, in realtà Marek non lo sapeva. Non sapeva più niente. Il rosso, poi il blu, poi il rosso. Un lampo in pieno petto e Finn a terra. SI ricordò di quelle piccole macchine fotografiche con immagini pre-impostate per i bambini, quando da piccolo amava far finta di fotografare la topaia in cui viveva con la madre vedova e ritrovarsi poi nell’obiettivo immense praterie fiorite. Sconfinate libertà. Smith cercò di richiamarlo alla realtà, o almeno quello si dice esser la realtà. Poi, ignorato, fuggì da solo in tutta fretta con la volante abbandonandolo in mezzo al nulla, con una libertà che assomigliava per certi versi alle praterie sognate da bambino. Scappava veramente in fretta e il puntino rosso, poi blu, poi rosso diventò sempre più piccolo fino a quando il buio scese su Marek seduto di fronte allo scatolone luminoso, al lampione sperduto in una stradina di montagna. Isolato da tutto, ma non si sentiva solo. Alienato da tutto, ma aveva di fronte alieni più alienati. Luci gialle, ora blu, ora pervinca, ora ecru, ora bistro, ora bianco rame, In un matrimonio onirico di colori. Una porta prima tutto ad un tratto inesistente si aprì. Quello che Marek vide in quella fredda notte di novembre non l’ha mai raccontato. Forse vide per la prima volta la verità,l’importanza e la realtà: tutto ciò che non aveva conosciuto. Forse un sorriso increspò le sue labbra ciniche quando, alzandosi stancamente, si avvicinò soddisfatto allo scatolone. Allontanandosi dalla vita in cui ci si accontenta solamente. Diventando un qualcosa di reale. Diventando lui stesso colore.
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