venerdì 31 gennaio 2014

L'insonnia della mente

E' la finzione che più d'ogni altra cosa
mi tiene sveglio la notte; la sensazione
che tutto sia la copia della copia della copia.

Sulle tonchiate notti cadono
come coriandoli di carnevale
gli anatemi della sera
quando ti rifugi tra le calette
del riposo, ascoltando già il domani.

Con l'ansia che a te non serva,
si sposta tra dubbi e tronchi
di sogni distorti, il mio cuore-
ceppo degli amori fertili,
ormai sterpame lasciato in gerbidi.

Forse è fortuna aver la luna
così salda, perché copra
con la calma della nebbia
le vitree labbra della strada:
parlano stillando luce.


Mattia Lo Presti
giovedì 30 gennaio 2014

I frammenti di verità

Ilaria Martellaci- La verità 


Nam Sibyllam quidem Cumis ego ipse oculis meis vidi in ampulla pendere, et cum illi pueri dicerent:Σιβυλλα τι θελεις; respondebat illa: αποθανειν θελω.

 ("Del resto la Sibilla, a Cuma, l'ho vista anch'io con questi miei occhi, dondolarsi rinchiusa dentro un'ampolla, e quando i fanciulli le chiedevano: "Sibilla, cosa desideri?" quella rispondeva:"Desidero morire")


Un impiegato e una dattilografa s'incontrano nell'appartamento della ragazza. Sullo sfondo, una città semi-distrutta dal nichilismo degli uomini ed indicibile (ma è Londra, s’intuisce). Qualsiasi briciola di rapporto umano è annientata dall'aridità del vivere: non esistono più valori. Lo stesso rapporto tra i due ragazzi è posticcio, blando. Come in un incubo, Tiresia- l'impiegato- avverte tutta la falsità della situazione, ma non riesce a svegliarsi. Perché l'incubo è diventata l'unica realtà; i sogni sono l'alone opaco del passato. 

Tiresia è un nome noto: nella ricca mitologia greca, egli non era solo un indovino, bensì il miglior indovino che avesse mai messo piede sulla Terra. Inoltre, dopo esser intervenuto in una disputa tra Dei, Zeus- per punizione- lo renderà l'unico uomo ad essere trasformato in donna e successivamente ri-dotato di pene (a parte forse Curtis Donovan di Misfits). Ma la peculiarità di Tiresia non sta nell'aver provato entrambi gli orgasmi, piuttosto nell'essere uno dei pochi a possedere la verità in quanto “colui che ha visto tutto”.  

Come potrebbe esistere il concetto di verità in un mondo distrutto dall'ipocrisia umana come quello di Eliot? Basta ridare un sguardo alla citazione iniziale, non a caso posta all'inizio del poemetto The Waste Land

Il senso fondamentale è qui: si percepisce l’amara e silenziosa presa di coscienza del decadimento della realtà. La Sibilla, infatti, condannata all'immortalità dal dio Apollo, è avvolta da un'aura di estrema decrepitezza, costretta allo scherno ad opera dei giovani del paese. Ancor più importante è scoprire il motivo capitale di questo risvolto esistenziale: Eliot fa coincidere la perdita dei valori con la fine della pacata esistenza terrena. Questa Pizia vecchia, seccata e stizzita è il prodotto di una generazione, è la tracotanza umana del voler strappare le notizie degli eventi dal futuro tramutata in corpo. 

 Ma, siccome la letteratura è spesso un lento rincorrersi di idee e un accorato riflesso in uno specchio lungo secoli, le stesse identiche figure così importanti nell’ideologia del poemetto- la Pizia e Tiresia- sono rinate sotto la penna dello scrittore svizzero Friedrich Dürrenmatt e il significato che veicolano è ancor più sorprendente se accostato a quanto detto su Eliot. Con meraviglia, le immagini combaciano e sembrano sprofondare l’una nell’altra. Nel romanzo del 1998, Das Sterben der Phytia (“La morte della Pizia”), Dürrenmatt tenta di rielaborare il mito di Edipo rivendendo la scala di valori della profezia della Pizia: qui il vero sovrano di Delfi non è Edipo, bensì la città stessa, sottoposta ad un decadimento materiale e morale che sfiora soltanto le immagini polverose di The Waste Land, ma che si riallaccia idealmente ad uno dei temi cardine della letteratura mondiale: la critica verso un mondo che ruota costantemente su se stesso, ma che in fin dei conti non cambia mai le regole di base. Così, l’esistenza umana immaginata da Dürrenmatt è la metafora dell’insondabilità e dell’inafferrabilità della verità, poiché, dall’alto, domina sovrano l’Enigma. L’acme del romanzo giunge nel monologo finale di Tiresia in cui egli afferma: <<La verità resiste in quanto tale se non la si tormenta>>.  

Sarebbe possibile non tormentarla, la verità? In fondo è l’unica cosa che non possediamo veramente, ma- quando manca- non c’è posto per nient’altro. Siamo quindi lontani dal mondo di T.S. Eliot, immaginato nel lontano 1922? Qui, nell’underground del XXI secolo, la verità manca ancora: solo che nessuno si preoccupa più di ricercarla. 

mercoledì 29 gennaio 2014

La morte negli anni Venti

Zelda & Scott Fitzgerald negli anni della giovinezza



Lettera di Zelda Sayre Fitzgerald a F. Scott Fitzgerald
[Dopo il 15 Aprile 1919]                                                                                                  Montgomery, Alabama    
 
<< Perché le tombe dovrebbero dare una sensazione di vanità? L’ho sentito dire tanto, e Gray è così convincente, ma in un certo senso non ci trovo nulla di disperante nel fatto di avere vissuto- tutte le colonne spezzate, le mani giunte, e le colombe e gli angeli significano storie d’amore- (…) spero che la mia tomba abbia un’aria di tanti, tanti anni fa- non è buffo come, in una fila di caduti confederati, due o tre ti fanno pensare agli innamorati morti e amate morte- quando sono esattamente come gli altri, fino nel muschio giallastro? La vecchia morte così bella, così tanto bella- noi moriremo insieme- lo so- Cuore mio. >>      


Piume, scialli lunghi quanto una contraddizione ed opulenza stanno ai Roaring Twenties come Hollywood sta ai film mainstream. E tutti gli sfarzi, i lussi di case favolose e inquietanti, gli abiti glamour sono il minimo comune denominatore d’una ricerca assurda verso il senso della vita, un po’ come facciamo tutti. Solo con più alcol e più paillettes. Ed è strano come questi piccoli oggetti possano rappresentare un’intera esistenza: è proprio da una semplice ciabatta che il 10 Marzo 1948 verrà riconosciuto il corpo carbonizzato di Zelda Sayre Fitzgerald, morta nell’incendio divampato nella struttura psichiatrica di Asheville in cui era rinchiusa da parecchi anni. Tra l’altro, ash in inglese significa proprio cenere.

Chiaramente, nemmeno la nervosa impazienza di Zelda, né la poco sobria intelligenza di Scott, sono state un freno alla comune necessità dell’uomo di porsi delle domande sulla troppo fragile esistenza. Così, capita a tutti di riflettere almeno una volta nella vita all’incombenza della morte. C’è chi si ferma al semplice pensiero della lontananza di big M., oppure chi crea poesie davvero splendide: basti pensare all’epico troll di Macpherson nei Canti di Ossian o alla meno rimarcabile “Elegia scritta in un cimitero campestre” del poeta inglese Thomas Gray (per gli amici traduttori del Settecento, l’orrido Tommaso Gray. Da far accapponare la sovraccoperta di qualsiasi libro).
Proprio al caro Tommaso fa riferimento Zelda in questa lettera risalente ai primi anni di corteggiamento di una delle coppie icona più celebri. Il pezzo in questione verrà ripreso da Scott nella riflessione conclusiva del suo primo romanzo (Di qua dal paradiso,1920), a mostra del fatto che per il grande scrittore americano, la consorte fu e rimarrà sempre una sorta di nemesi/musa ispiratrice, sino al culmine, l’esplosione di autobiografia nel Grande Gatsby.

Quello che colpisce, in questo scorcio conclusivo della lettera, è la tenera illusione dell’amore. Un amore giovane, e già zoppicante, seppur saldo. E’ non mi sto ingarbugliando in contraddizioni: infatti, Zelda era una a cui piaceva far ingelosire Scott; spesso baciava un altro uomo di fronte al proprio fidanzato alias povero Fitzgerald, salvo poi confessargli amore e fedeltà eterna. Un labirinto di caratteri, questa Zelda.

Ancora più tenerezza ci conserva la nostra posteriorità a questi eventi, sapendo infatti che Zelda vivrà ancora otto anni dopo la morte dell’eterno amato Scott nel 1940, facendo la spola tra vari istituti psichiatrici. Non moriranno assieme come la giovane Zelda sperava così ansiosamente. Ed è triste, come triste è vedere morire ogni amore sincero. Tristi gli ultimi anni di scambio epistolare tra i due, con Scott impegnato in un’altra relazione ad Hollywood. Sola, Zelda
.
E come un fuoco d’artificio tardivo, sparato per sbaglio dopo quello conclusivo della serata, resta per sempre la tomba dei due, sepolti insieme- forse anche ingiustamente viste le chiare intenzioni di Scott di essere sepolto vicino al padre. Restano anche tutti gli splendidi libri di Scott, e le lettere piene di vita; i movimenti generazionali a loro ispirati, le flappers, i ruggenti anni venti che tuonano come un’eco fino ai giorni nostri e una storia. La loro storia, che dipinge un grande full stop sopra gli interrogativi riguardo alla morte: essa toglie, non aggiunge. E quando sottrae, c’è sempre qualcuno che resta solo.


<< (…) E vissero felici e contenti- o il meglio possibile.>> Lettera di Zelda a Scott (Agosto 1936)

Gli Istanti Perfetti

Edward Hopper- Nighthawks

I suoni e le luci si dissolsero nel fango nero
della notte, cadendo come stelle in un canto
di San Lorenzo, dolce e amaro al tempo stesso;
Lì brillarono quegli occhi d'incenso,
puliti più del Nord e dell'oceano,
freddi come il ghiaccio secco e la vita:
uniti in un distacco velato d'istanti,
quando invece del tempo non resta
che un vago senso di esaurita fretta.


Quante cose si possono dire su di te,
i respiri, pensieri di ieri, ma quante cose
ancora posso dire dentro di te:
anni di deserti polverosi- quella sensazione
che non t'abbandona nemmeno tra la gente-
formicolando arrogante tra i precipizi
delle insicurezze, scivolando sull'aria
viziata dei ricordi, chiusi ad onta di danno
per quelli che stanchi la ricorderanno,
sospirando delusi tra giudizi inesatti.


Quante cose posso dire dentro di te,
ben più intime e meno sensate:
i miei gesti sbagliati, le frasi spezzate,
quella mano che stanca ancora ti cerca
non per amore, ma per sicurezza
cadendo sconfitta sul petto
la notte che s'ombra di netto
mentre aspetto disteso sul letto
un tuo sussurro distratto.


Non che l'alba spezzi la voglia,
forse da Oriente sorge anche una spoglia
malinconia dal mio sonno levante,
alzando la tenera testa distante
anni-luce da me, dal mio esser
presente in questa mattina d'inverno
freddo,- un brivido d'inferno la tua assenza
spenta col peso fatuo del giorno-
mentre mordo l'asfittica distanza del vuoto,
del vano
nostro mondano.


È un'agnizione strana quando si scorge
la scia ancora calda della tua sera,
tenebrosa e procace; così tardiva
parte dal nostro rifugio che non esiste,
in un teatro di giochi senza sipario-
cruda e reale come un sogno-
prendendo le mie dita incrociate
di getto, accucciate sotto il mento
in una smorfia senza senso:
chiusi gli occhi in un lampo di libertà,
rideremo, rideremo fino a piangere
scandendo i passi della solitudine
lontana da casa, mentre felici- assieme-
guarderemo un tramonto
distante secoli.

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