"Tutti i moventi per l'omicidio sono riassunti esaurientemente in queste quattro parole: amore, lussuria, denaro e odio. Ti verranno a raccontare, ragazzo, che la più pericolosa è l'odio. Non crederci.
La più pericolosa è l'amore."
(
Phyllis Dorothy James)




Mi accompagnano nella stanza quarantasette, su al secondo piano. Ho sempre odiato la prigione ma ora mi accontento. Con un po’ di distacco ripenso a qualche minuto fa, prima che mi gettassero con forza oltre la soglia dalla quale, per trent’anni, dicono che non passerò più:  penso al sole che mi bruciacchia quei tre peli biondi che ho sul braccio e al vento che mi scompiglia i capelli. Penso che in fondo non ne valesse la pena di giocarsi tutto in quei cinque minuti d’azzardo. Penso e sono sempre più convinto che abbia sbagliato  il tempo del mio All in. Eppure sono sicuro di quello che ho fatto e del perché lo feci. Sono fedele al mio percorso e ai miei passi fermi, anche se ora trascino i piedi su per le scale grigie e sudice inciampando ogni quattro gradini. Dicono che sono un lurido pezzo di merda, e hanno ragione. Dicono che merito la morte, ma non sanno che sono già morto.
Il peso del non essere me. Qualche sputo mi bagna la faccia: sono quegli stronzi degli altri detenuti che si credono abbastanza onesti da potermi giudicare. Non mi faccio criticare da un uomo alto quanto un armadio a tre ante che ha violentato una vecchia di settant’anni:  è come farsi fottere da un eunuco. Io non ci sto e rispondo con un calcio alle sbarre, che corrisponde a una manganellata sulla mia testa uguale a uno svenimento  diviso per una caduta a terra. Mi risveglio nella cella, solo. Il mio compagno è stato picchiato a sangue perché ha tentato di strappare l’uccello al detenuto della 28. Mai ho apprezzato così tanto la solitudine. Francamente non c’è molto che voglia fare;  perdo molto tempo a fissare il cesso che gocciola acqua sporca e immagino l’acqua sporca che mi riempie la bocca per poi soffocare, per poi sputare quando è troppo tardi, per poi capire l’errore. Tutto questo non l’ho voluto io, è per questa ragione che se mi chiedono cos’è successo io rispondo: un omicidio, anche se considerando tutto è un doppio omicidio. Uno  mio, uno di J. . Un tempo ero felice, tanto tempo fa. Talmente tanto che faccio fatica a ricordare come si sorride. Questo però non vuol dire che io non ci provi; ogni giorno tento, mi sforzo, m’impegno fino a che almeno uno mi riempie le labbra. La solitudine rende bugiardi anche con se stessi ed io rido per finta ingannando me stesso di esser sereno. Ogni secondo, ogni minuto, ogni ora sono costretto a subire gli insulti e le prese per il culo di almeno cento compagni di reparto. Ogni fottutissimo giorno. Certo, me lo sono meritato, ma questo non vuol dire che io lo desideri. L’unica cosa che vorrei ancora sarebbe vedere la sua gola che si riempie di sangue. Mi piace leggere ma non sono mai andato a scuola quindi mi mancano i miei audio libri con tutte quelle storie che mi facevano dimenticare la mia vita. Tutte quelle favole che mi facevano dimenticare il peso di non essere più me stesso. Ne ricordo una, la mia preferita: una ragazza e un ragazzo s’incontrano per la prima volta da bambini, innamorandosi perdutamente; poi si sposano ma la ragazza decide che l’amore non è più cosa per lei e così lascia il ragazzo che se ne trova un’altra. L’amore non esiste ed io l’ho uccisa perché neanche lei doveva lasciarmi. Quando sono seduto sul letto non dormo mai. Non chiudo gli occhi neppure la notte. Me ne sto seduto ad ascoltare le urla degli altri fino a quando anche l’ultima smettere e allora capisco che tutti si sono addormentati. Non dormo perché ho paura di non svegliarmi. Ho paura di trovare nel sogno qualcosa per cui non vivere più. Ci sono delle giornate in cui invece vorrei poter andarmene via: quando piove sento una forza dentro di me che dice di gettarmi a terra ed urlare con tutto il  fiato per cercare di volatilizzarmi. Questo non funziona mai e di solito mi scaraventano nella cella d’isolamento per giorni e giorni, fino a quando la pioggia non cessa. Io piango immaginandomi le gocce di pioggia che mi bagnano il viso. Non sono pazzo, ma fingo di esserlo perché così è più facile vivere. Posso sbavarmi addosso, rimanere ore e ore in fissa nel vuoto, pisciarmi addosso, mordermi le braccia e poi mangiarmi la pelle. Posso pensare a lei. Intanto che la mia pazzia fa finta di peggiorare, il tempo passa  lentamente ma sono ormai dieci anni che sono dentro. In dieci anni puoi diventare il Satana del tuo inferno quotidiano; Io mi sento un po’ di più l’Hitler della situazione. In dieci anni ho avuto la bellezza di trentacinque nuovi coinquilini e devo dire con fierezza che nessuno è resistito una settimana intera. Nessuno deve condividere la mia pazzia. Alla fine hanno preferito tenermi nella cella d’isolamento sei giorni su sette escluso il mercoledì. Così il mercoledì è diventato il mio giorno di svago, la mia piccola domenica privata; Il settimo giorno in cui Dio tira le somme.Mi piace poi mostrare furioso  i denti e ringhiare ferocemente verso i secondini che fuggono, non importa quante ne prenderò dopo. Il piacere sta nella vanità degli attimi ed io ho imparato a godermeli un giorno a settimana escluso il terzo del mese quando arriva un criminale “vip” dalle contee vicine. Io so tutto questo perché  ascolto. Io ascolto perché non parlo mai. Non parlo mai perché il suono della mia voce mi spaventa: mi ricorda tutti quei momenti con lei e mi viene in mente quando mio papà mi picchiava ed io piangevo sotto il tavolo della cantina; questo succedeva dopo che mio padre andava in giro ubriaco a mettere sotto le persone con il furgone. Era la sua catarsi e non si pentì il giorno che lo vennero a prendere a casa con la mamma che piangeva non so se per disperazione o sollievo. Io osservavo la scena da sotto il tavolo attraverso la finestra che dava sulla strada deserta illuminata solo dalle lucine lampeggianti della volante. Quando la mamma scese per prendermi e portarmi dalla nonna mi accorsi passando davanti allo specchio in corridoio di sorridere. Non so se per gioia o entusiasmo. Anni dopo giunse la notizia della morte di mio padre in carcere. Era morto solo, senza nessuno che lo fosse andato a trovare almeno una volta. Ricordo che piansi perché dopo così tanto tempo che non sentivo nominarlo, mi ritornarono in mente le mani pesanti addosso al mio corpo: ogni suo ricordo era un pugno in stomaco, ogni volta che lo si nominava le mie ossa si stringevano come un boa stritola la preda. Credo che fu in quel momento che odiai il concetto in sé di prigione: la prigionia dell’anima che ruba alla morte il suo lavoro. Credo che fu in quel momento che la mia condanna si stampò a caratteri dorati nel destino davanti a me. Mi fa male ancora di più ripercorrere così velocemente la crescita, un po’ perché non la ricordo per niente, un po’ perché il cervello l’ha eliminata per salvare la mia coscienza. La coscienza è linda e pulita come dopo un lavaggio a secco. Quando infine è arrivata lei a raccogliere i brandelli del non essere me stesso, posso dire che il pungiglione avvelenato della vendetta di mio padre contro di me arrivò dall’oltretomba trafiggendomi interamente. La staffetta familiare doveva proseguire e ripetersi come in una gara senza fine: ora toccava a me. Toccava  quindi a qualcun’altro morire al posto mio. Io non l’ho uccisa perché non l’amassi più. Io le ho tagliato la gola pensando che volesse fare come la ragazza della mia storia preferita e perché era stato scritto che sarebbe dovuta andare così: andare giù, nel fondo, nel pozzo, nell’oscurità, in tutta quella merda che è la mia vita. Io ero così contento e anche J. lo era e anche il tavolo in cantina lo era e anche la pioggia. Mio padre però mi guardava da dove io non potevo ricambiare lo sguardo d’odio e sapevo che mi stava lentamente uccidendo. In questo modo sono finito nel mio incubo ancora prima che me ne accorgessi, risucchiato nell’oblio da un piccolo mulinello di sangue e peccato. La cosa più strana e al tempo stesso divertente è che sono pienamente cosciente della mia situazione. Non mi stanco mai di ripetere che io non sono pazzo, faccio finta di esserlo perché così è più facile vivere. Il peso del non essere me mi schiaccia lo sterno e mi lascia senza ossigeno ogni volta che rifletto su quello che sono. E, soprattutto, non sono cattivo. Sono incompreso, tutto qui. La maggior parte della gente fugge ciò che richiede troppa fatica per essere capito ed io finisco rilegato a una copertina con scritto “tempo perso”; ed io sono il primo a perderne con stupidi pensieri che non portano a niente. Tuttavia  qualcosa di utile lo faccio anche io. Il trentaseiesimo compagno di stanza che mi rifilano è l’ultimo della lista, la mia ultima chance. Io so riconoscere un gesto di pietà e alla fine mi rendo conto che non vale la pena di sputare nel piatto in cui non sto mangiando. Dice di chiamarsi Ryner.Ciao, Ryner.Furto, traffico di stupefacenti, spaccio, strozzinaggio, omicidio: la sua fedina penale sembra più una lista di missioni di Grand Theft Auto. Il ragazzo fa lo scontroso e gli dico di abbassare la cresta se non vuole finire in game over. Ridendo, mi dice che tutti a questo mondo sono dei peccatori, anche i santi. Dopo anni d’isolamento faccio fatica a sostenere un dialogo per più di qualche secondo così sbiascico le ultime parole strappate dalla bocca come un dente del giudizio. Civile convivenza, niente discorsi, niente domande. Okay è tutta la sua risposta. Poi mi metto a dormire come non facevo da secoli. Quando mi sveglio, non lo trovo più ed è solo allora che mi ritornano in mente quelle uniche parole messe in linea per formare la sola frase di senso compiuto che disse: Tutti  sono peccatori, tutti muoiono, tutti con la pecca di saper arrivare a fine mese ma non alla fine della storia. Ryner ritorna.Dal sangue fresco sulla tempia sinistra intuisco che abbia appena finito un interrogatorio: questo non lo chiedo perché l’unico comandamento è non chiedere spiegazioni; è per una civile convivenza forzata-  mi ripeto nel cervello. Forse l’ultima chance non è perduta: se mi sono abituato al carcere, posso farcela in qualsiasi altra cosa.